Un Paese-chiave in una zona nevralgica dei rapporti fra Cina e Stati Uniti
Da sempre l’Italia ha avuto con Taiwan un rapporto cordiale, ma distaccato: il mancato riconoscimento diplomatico da parte del nostro Paese (come la gran parte degli Stati mondiali) nei confronti della Repubblica di Cina è dovuta essenzialmente alla volontà di non turbare il rapporto con la Repubblica Popolare Cinese, la Cina continentale, nei confronti della quale ci legano molti rapporti. Comprensibile, ma non per questo vale la pena sottovalutare ciò che si muove in quella parte del mondo.
Tanto più dopo il roboante messaggio di inizio anno con cui il leader cinese Xi Jinping ha annunciato di volersi riappropriare dell’isola senza escludere l’utilizzo della forza, o meglio con “tutti i mezzi necessari contro le attività separatiste di Taiwan e le forze esterne che interferiscono nel processo di riunificazione”. A chi si riferiva? Sicuramente agli Stati Uniti, a cui Taipei è legata a doppio filo; ma a molti stati che pur rispettando la volontà di Pechino, intrattengono relazioni economiche, commerciali e culturali con l’isola di Formosa.
Quale realtà di fatto sulla scena internazionale, Taiwan opera a tutto campo attivando canali di dialogo con società “like-minded” come quelle europee, nord-americane, quelle nel sud-est asiatico e nella regione Indo-Pacifico e facendo leva su tutte quelle forze, al livello di governo, a quello parlamentare, a quello di società civile che sono vocate al rafforzamento dei valori di libertà e democrazia. Alcuni stati membri della UE come Francia, Germania, Polonia e Olanda, pur senza riconoscimento formale, hanno una corposa presenza diplomatica di qualche decina di unità, contro le 5-6 della nostra rappresentanza. Nonostante questo (e grazie anche alla legge che ha eliminato la doppia tassazione tra i due Paesi, voluta e approvata da noi nella scorsa legislatura) l’interscambio tra Roma e Taipei è ormai superiore ai 5 miliardi di dollari con un incremento attorno al 15% annuo.
Per le democrazie occidentali e non solo, risulta facile il dialogo con la nazione insulare, che per la prima volta nella storia di uno stato di lingua cinese ha eletto nel 2016 una donna come capo di Stato. Taiwan (dove vive una comunità italiana di poco inferiore alle 800 persone, a cui ne va aggiunto qualche altro centinaio che vi si ferma spesso per lavoro) è una democrazia liberale, che si muove in un quadro politico di forte alternanza tra i conservatori del Kuomintang e i progressisti del Dpp; che riconosce e rispetta tutti i diritti e le libertà individuali, a partire da un grado di libertà di stampa, di opinione e di religione che tutti gli indici internazionali collocano al primo posto in Asia e ai vertici a livello globale. La vivace economia taiwanese, tra le prime venti al mondo, è trainata da alcuni settori (su tutti l’ICT) su cui l’Isola è leader mondiale.
La questione centrale e più spinosa, dunque, rimane anche quella politicamente più rilevante e di interesse internazionale: il rapporto con la Cina continentale, mai così teso come oggi negli ultimi vent’anni. Se per Pechino l’accettazione della “One-China Policy” e il Consenso del 1992 (“Una Cina, due interpretazioni”), rappresentano una precondizione essenziale ad ogni forma ulteriore di dialogo, a Taipei si persegue invece il mantenimento della condizione attuale, il consolidamento di una identità distinta e del modello politico originale di società aperta e democratica.
Il braccio di ferro con la Cina non sembra piacere agli elettori, che nella tornata di votazioni amministrative del 24 novembre scorso hanno lanciato un messaggio negativo al partito della presidente Tsai: la quale per tutta risposta (in vista anche delle presidenziali 2020) ha lasciato la guida del partito e in questi giorni dato vita ad un nuovo governo. Se la maggioranza precedente del Kuomintang era stata bocciata nelle urne per un eccessivo avvicinamento a Pechino, ora gli elettori sembrano non gradire la rigidità assoluta nel rapporto con la Repubblica popolare, che ha già iniziato azioni diplomatiche, politiche ed economiche di ‘rappresaglia’. L’elettorato taiwanese ha dimostrato di voler pragmaticamente puntare su forze capaci di lavorare con Pechino, ma con la prudenza di non esporre Taiwan né alla prospettiva dell’assorbimento da parte della Cina continentale né al rischio di un potenziale conflitto con essa. In sostanza puntano sul mantenimento dello ‘status quo’.
A questo obiettivo deve tendere la posizione italiana ed europea, poiché un conflitto – come prospettato da Xi Jinping e come confermato da un recentissimo rapporto del Pentagono – sarebbe drammatico per le popolazioni interessate, ma anche per l’equilibrio globale. Taiwan, infatti, è ormai uno dei punti nevralgici delle relazioni sino-americane, uno dei punti baricentrici del mondo e di un sistema di rapporti che se venisse incrinato rischierebbe di provocare conseguenze negative per tutti. Potenziare l’attenzione su questa realtà non deve essere una questione per soli appassionati, ma una linea d’azione anche per tutelare i nostri interessi in quell’area.